catalogo Bracci Doccia

 

antica fusina delle Butighe in Valsabbia

 

L'evoluzione delle arti lavorative in Valsabbia.
L'attitudine a lavorare il ferro ed altri metalli in Valle Sabbia ha origini molto antiche.
È evidente che la presenza di vene metallifere nei suoi monti ed, ancor più, in quelli della vicinissima Valle Trompia, unitamente alla necessità di forgiare attrezzi per lavorare la terra, ed armi per il diletto della caccia o la difesa più o meno organizzata, hanno favorito ulteriormente la naturale inclinazione degli abitanti di questi luoghi.

La concentrazione siderurgica di questi ultimi anni, così lontana per la metodologia di lavoro dalle regole di funzionamento degli antichi forni, delle fucine "grosse e minute", è venuta però a calarsi su un "humus" umano particolarmente vicino a tutto ciò che sa di ferro, riallacciando i ponti con una lunghissima tradizione di lavorazione interrottasi di fatto solo verso la metà del secolo scorso.
Tutto il processo di lavorazione è stato possibile grazie ad una immensa fatica che ha perpetuato i suoi momenti più sofferti nell'escavazione della vena nelle gallerie anguste; qui l'uomo, non importa se adulto o ancora adolescente, ha vissuto un solitario e spesso drammatico rapporto con la sua terra, mentre le toglieva, con un lavoro massacrante, la materia da trasformare.
Dalla escavazione del materiale al suo trasporto ai forni fusori, è stato tutto un susseguirsi di altre fatiche che hanno avuto come sfondo anche le selve ove provetti boscaioli tagliavano di anno in anno le legne da trasformare in carbone, scegliendo le più adatte per riuscire a temprare meglio il ferro.
Le mani e la mente dell'uomo hanno poi fatto il resto, come a Bagolino, rimasto famoso per i suoi provetti docimastri.
Nella ideazione dei forni fusori sono prevalsi l'ingegno, la riflessione e l'inventiva.
Ne è prova il forno fusorio di Lavenone che, come dice il Soldo, "fu cosa stupenda e degna d'essere veduta - senza mantici, senza rota, ma solo col vento causato da l'acqua, che artificiosamente cascha, in certe cavità artificiosamente fatte, lavora colando la vena, et facendo il ferro, come fanno li altri forni, che vanno con rote et mantici, et con manco spesa assai, cosa stupenda et degna d'esser veduta...";.

In Val Sabbia l'istituzione di altoforni, o forni fusori, si perde con la stessa storia della zona.
Le abbondanti selve, le vicende guerresche hanno assecondato lo sviluppo della siderurgia.
Dal secolo XIII in poi si hanno però notizie più precise su un'attività che è stata un po' l'"anima" produttiva della Valle Sabbia e che si è perpetuata su una catena di immense fatiche, forgiando, mentre veniva modellato il ferro, il carattere stesso della gente, messa in posizione dialettica con la natura, dove la fatica, spesa senza pausa e senza risparmio, dà i risultati sperati.
La vena fusa in Valle Sabbia veniva per la maggior parte da Collio Valle Trompia e da S. Colombano sempre in Valtrompia. Si chiamava in principio "malle".
Nel secolo XVI però, migliorata l'industria e perfezionata di fuochi gagliardi, venne chiamata "assi", perchè dava ferro duro o "azzale".

La vicenda della lavorazione del ferro nei centri valsabbini scorre parallelamente alla storia della Valle Sabbia. Un rapido sguardo testimonia questa impressione.

Nel secolo XVI esistono dodici altoforni: due a Bagolino, uno a Lavenone, uno a Vestone, Barghe, Odolo, Levrange, Forno d'Ono, Navono e Malpaga.
Le fucine, divise in grosse e minute, sono molte. Bagolino in quel tempo ne annovera 17, 1 Anfo, 35 il Savallese, 2 Vestone, 1 Nozza, 14 Odolo, numerose la Pertica.
Nel 1562, ne vengono censite 50, nel 1608, 80 e nel 1732, 73.
A Bagolino, in quest'arco di tempo, vengono prodotti "navassi" ed armi che per la loro resistenza sono ricercate in tutto lo Stato veneto, ma anche a Milano, Firenze, Parma, Torino, Senigallia, da dove, durante i giorni della celebre fiera, passano ai diversi Stati europei.

Vobarno, con le sue fucine, costruisce le ancore per la flotta veneta.
Odolo gli attrezzi agricoli più disparati e Levrange, Ono, Casto e Malpaga chioderie di diverso tipo.
È tutto un fervore di attività anche se nel secolo XVII, per le gravi imposizioni fiscali di Venezia, l'industria incomincia a manifestare i primi segni di una crisi che culminerà nei primi anni del 1800.

I "magistri" del ferro incominciano l'esodo verso terre più attente alle esigenze della produzione; ha così inizio il peregrinare delle maestranze più intelligenti, degli ingegni più perspicaci ed il venir meno degli stimoli, delle nozioni agli operai comuni.
Alla fatica si accompagna l'emigrazione che significa anche apertura mentale, disponibilità a vivere in altri orizzonti, ma pure sacrifici dolorosi e famiglie disgregate.
Già il Da Lezze nel 1609 avverte il problema quando scrive che i bravissimi magistri di Lavenone "... vanno continuamente in terra tedesca, in Schiavonia, in Labrucio, in Romagna, Fiorenza, Roma ed altri luoghi perchè non hanno tratenimento nel stato ed a casa non vi restano se non le donne...".

Solitamente gli altoforni sono proprietà dei comuni che li affittano alle compagnie del forno.
Queste sorgono per la regolamentazione dell'utilizzo dei forni tra i diversi soci; fra tutte avrà vita assai lunga quella del forno di Levrange. Le attenzioni e l'ingegno, spesi per i miglioramenti del funzionamento dei forni e per l'aumento del loro potenziale produttivo, sono continui.
Rimangono famose le invenzioni dei fratelli Bartolomeo e Stefano Franzoni di Bagolino, architetti, ingegneri, esperti nell'arte del ferro.

Per tutto il 1700 l'attività continua, anche se la qualità del prodotto risulta piuttosto scadente, nonostante il persistere dell'elevato numero di fucine.
Generalmente in questo secolo non ci sono innovazioni di rilievo. Si procede per tradizione e per esperienza e ciò non per mancanza di ingegni o per carenza di volontà locale, ma per la ormai proverbiale debolezza dello Stato veneto.
I più bravi artigiani vivono il dilemma se rimanere o abbandonare i paesi, allettati da continue promesse come quelle avanzate verso la fine del secolo dal duca di Firenze nei confronti degli abilissimi docimastri di Bagolino.

Una cosa è certa: se, nonostante la stagnazione politica, le esose tassazioni, la concorrenza straniera, la mancanza di una seria politica economica, la Valle Sabbia, ancora alla fine del dominio veneto e all'avvento dei Francesi, presenta un panorama di attività siderurgica di tutto rispetto, questo è dovuto esclusivamente alla grande dimestichezza dei valsabbini in questo campo, alloro continuare un "gioco" faticoso con il ferro, al loro ingaggiare quotidianamente una lotta dialettica per piegarlo e ridurlo o ad oggetto d'uso o di diletto.
Le mani agili dei docimastri non hanno prodotto soltanto attrezzi di utilità quotidiana, armi, ma si sono sbizzarrite in elaborazioni artistiche, creando lavorazioni preziose che ancor oggi fan bella mostra su alcune case, come inferriate, catenacci, battenti ed altri oggetti decorati con motivi diversi.

Dalle relazioni economiche del tempo, nei primi anni del 1800, molte miniere risultano già abbandonate completamente.
Nonostante ciò, in Valle Sabbia, nel 1814 sono ancora attivi tre forni fusori e molte fucine.
Con l'avvento dell'Austria, l'industria del ferro subisce un nuovo duro colpo.
Già profondamente segnata dalla mancanza di un adeguamento tecnologico, a fronte delle nuove esplosioni di invenzioni straniere e dalla disattenzione del governo centrale, essa decade, certo lentamente ma inesorabilmente, anche per il drenaggio di risorse che il governo attua a favore della più fortunata Carinzia, che gode di privilegi ed agevolazioni fiscali.

La situazione peggiora ulteriormente nella seconda metà del 1800. Tutti i forni chiudono e quasi tutte le fucine diventano inattive.
Il giornale "La Provincia di Brescia", in una corrispondenza dalla Val Sabbia, il 14 marzo 1878, mette in risalto il silenzio che regna su quei paesi con riferimento alla pulsante attività siderurgica che li ha resi dinamici per moltissimi anni.
Si arriva così, verso la fine del secolo, all'inizio del nuovo processo di industrializzazione che richiama nuove energie e nuove tecnologie nonchè capitali freschi.
A Vobarno, proprio sul luogo di un'antica tradizione di lavorazione del ferro, sorgerà la più vasta nuova industria siderurgica, cioè la Falk.
Anche quella intuizione che dal 1950 in poi ha fatto della Valle Sabbia nuovamente la terra della lavorazione dei metalli, seppur con sensibilità e modalità diverse, viene da una esperienza quasi atavica.
Ciò basta ad unire, nel segno della continuità, una propensione alla lavorazione del ferro in epoche differenti.
Da fatica a fatica, la tradizione valsabbina, come quella della stragrande maggioranza delle popolazioni passate, si è mossa poi e soprattutto sui registri della mentalità e della cultura contadine.

Il passaggio e le regole stagionali, scanditi dalle diverse lavorazioni nei campi, nei boschi, sottolineate da tradizioni folkloristiche e da feste religiose, è stato il grande quadro nel quale si è dipanata tutta l'esperienza umana degli abitanti di questa valle.

I contadini, nel corso dei secoli, hanno, di generazione in generazione, accumulato un bagaglio sapienzale che ha sempre dovuto badare all'essenzialità, a ciò costretti da una continua povertà e dalla precisa convinzione che il sovvertimento delle regole significava per loro, e l'esempio veniva dall'equilibrio insito nella natura, ulteriori e più pesanti conseguenze.
In questo faticoso trovarsi immersi nella natura per necessità e non per scelta, il diletto, la poesia e l'inventiva hanno trovato qualche spazio, mescolati al quotidiano lavoro.

Il legno è diventato così non soltanto un altro elemento di utilità, vicino al ferro, "oggetto" economico, ma, nelle mani di arguti contadini, di artigiani, ispirati come artisti, si è trasformato in materia lavorata, plasmata, ridotta a messaggio di vita ed a simbolo ideale.
E diventato, in altre parole, un mezzo per sviluppare la creatività artistica.
Dall'umile attrezzo, alle scodelle ed ai cucchiai intagliati nelle baite di montagna, sino ai mobili scolpiti dalle mani esperte degli artigiani per la committenza danarosa, dai banconi delle sagrestie sino alle soase delle chiese, corre un nesso persistente che accomuna questa produzione nel vasto esprimersi della fatica, frammista alla poesia della vita.

Valle del ferro, la Valle Sabbia, ma ancor più, o comunque con ugual tensione, valle del legno, del lavoro nei boschi, degli intagliatori, del fantasioso ingegno contadino e della più completa elaborazione artistica di molte schiere di veri "poeti" dello scalpello.
Uno sguardo agli interni delle chiese, un giro per la Valsabbia consolidano anche oggi questa impressione.
Le testimonianze dell'arte di intagliar il legno sono massicce come massicci sono i documenti in proposito.
Il pensiero va alle prime realizzazioni di cui si ha notizia nel 1500. Sono, per la maggior parte, statue della Vergine, intensamente umane, materne, ove la Madonna è vista come una mamma cui confidare le preoccupazioni e le fatiche di ogni giorno.

Viene più tardi il trionfo della fantasia barocca, grandiosa nelle realizzazioni delle soase, dove la spontaneità contadina viene piegata e filtrata da canoni artistici più precisi, più puri e da considerazioni di ordine religioso.
Inoltre, il legno dei boschi, con faticosissimo lavoro, è ridotto a carbone, parte trasformato in tavole per costruzioni, ricchezza indiscussa per numerosi paesi.

Per molto tempo, nel corso dei secoli, esso è pure causa di controversie per l'uso delle acque del fiume Chiese durante il trasporto ai mercati della pianura; è strumento di poesia per le innumerevoli e diversificate lavorazioni artistiche; fonte di energia per le attività artigianali.
Anche il "pojàt", che ora sopravvive in numero sempre più ridotto e che è una vera "archeologia" di mestieri e di abitudini, si è inserito per il passato come elemento d'obbligo nel paesaggio e nelle attività economiche.

Quel lento fumare per trasformare la legna in carbone, quella fuliggine penetrante e nel medesimo tempo sana sono stati un po' l'emblema di una scansione lenta ma precisa nel tempo.
Oggi questo colloquio con le cose è in gran parte interrotto, sconvolto da nuove tecnologie e gli stessi "raseghì" che hanno, lungo i secoli, ridotto in tavolati le conifere e le altre piante copiose nelle selve valsabbine, sono solo un'immagine che vive in vecchie fotografie o in tradizioni di un"'arte", ove ritmo e fatica hanno camminato fianco a fianco.

Dal bosco alla campagna il passo è corto. Così il contadino-boscaiolo ha alternato la fatica del bosco con quella del campo nella continua ed incessante cura della terra, esigente, esosa di sudore, ma confidente nella generosità dei raccolti.
La terra è vista come tremenda necessità e poi, in qualche momento, più contenuto, come poetico paesaggio, comunque "involucro" necessario e quasi totale dell'esistenza di molte vite.
Questa terra, osservata, dissodata, quasi vezzeggiata, invocata prospera e ricca di messi con rituali religiosi e propiziatori, è stata per secoli una gran madre amata e nel medesimo tempo temuta.
Dopo i boschi viene l'acqua, abbondante nei torrenti e nel suo allargarsi a lago in quel di Idro. Dall'acqua sono nati arti e mestieri.
Essa ha permesso ai valsabbini di collocare gli altoforni ed, ancora, la sua presenza ha consigliato loro di cimentarsi nella lavorazione dei panni di lana, in un'arte cioè che ha reso prosperi, in periodi diversi, Agnosine, Preseglie, Casto e Bione.

Tutte cose ora tramontate che rivivono nei documenti scritti, nelle testimonianze di alcuni edifici che costituiscono quella che viene chiamata archeologia industriale, ma che ancor più sono patrimonio della vena più intima dei valsabbini. Alfredo Bonomi 12/1989.